MONASTERO SANT'ELIA
L’origine e il fondatore del monastero italogreco dei santi Elia e Anastasio di Carbone, intitolato inizialmente alla Tutta Santa Madre di Dio e a sant’Anastasio, e, solo successivamente, anche a sant’Elia, restano incerte.
Paolo Emilio Santoro, nella sua opera del 1601, datava gli inizi del cenobio al VI-VII secolo, e ricordava «origo ignoratur, soppressa fundatorum gloria» sostenendo che, in epoca successiva alla fondazione, si fosse attribuito il merito a san Luca chiamato Carbone identificato con il Luca santo di Armento, segnalato negli elenchi come primo igumeno (monaco a capo del monastero). Il nome Luca resterà legato ai membri della comunità come Luca II, che diede una vera impostazione “programmatica” a livello spirituale e materiale.
Tutto questo trova piena conferma in uno dei più antichi documenti del Cartulario, cinquant’anni dopo la morte del fondatore, ossia nel testamento dell’abate Biagio (1041). In un documento del 1059, Luca II, quinto igumeno, ricordava brevemente che il monastero venne «fondato dal santo e traumaturgo Luca, soprannominato Luca di Carbone, che aveva ricevuto l’abito santo e angelico dal grande Saba, è arrivato, tramite i suoi diversi successori, finalmente a me» e menzionava i primi dirigenti della comunità tra cui Luca e Blasios a cui venne dedicato un oratorio (è molto probabile che si riferisse all’attuale chiesa madre ancora oggi intitolata a san Luca Abate) «con il nome di S. Luca e S. Blasios nel quale i malati sono guariti fino ad oggi», frase che evidenzia la venerazione, per meriti religiosi, degli igumeni defunti e un’attività di assistenza alla popolazione locale.
A Blasios successe Menas che, catturato dagli Agareni, lasciò il monastero in custodia al suo congiunto Stefano, detto Teodulo.
Si assistette, a partire dall’XI secolo, a una notevole crescita del cenobio: molti erano i monasteri e le chiese sottoposte al controllo del centro monastico carbonese.
Con l’avvento dei Normanni (XI sec.) la forza economica della comunità si irrobustì notevolmente, e i più grandi monasteri greci, tra cui Carbone, furono assimilati per ricchezza alle grandi fondazioni monastiche come quelle benedettine promosse dal nuovo potere normanno. Nel 1074 fu proprio la famiglia normanna dei Chiaromonte a concedere terre e possedimenti della propria contea al monastero; si assistette alla costituzione di monasteri greci più piccoli, metochia cioè aziende agricole monastiche, che caratterizzarono il territorio lungo i fiumi Sinni e Serrapotamo.
L’importanza economica, politico-istituzionale oltre che religiosa del monastero raggiunse l’acme nel 1150 quando gli fu riconosciuto, per la prima volta, il titolo di archimandrita, ossia capo di una confederazione territoriale di monasteri.
La centralità del cenobio crebbe sempre di più e nel 1168, re Guglielmo II di Sicilia, affidò all’igumeno Bartolomeo il controllo materiale e spirituale di tutti i monasteri greci delle attuali Puglia e Calabria. L’abate di Carbone divenne signore assoluto, autonomo da ogni vescovo e indipendente dalle grandi famiglie feudali che imperavano nelle Terre limitrofe.
La tradizione vuole che nel 1174 il monastero fu devastato da un terribile incendio e che venne ricostruito sulla vetta di Montechiaro, infatti, si conserva nel locale dialetto il suggestivo agiotoponimo di santa Caterina.
La Regina Costanza rinnovò al monastero tutti i privilegi concessi dal suo predecessore e nel 1232 Federico II concesse ai monaci: «propriam barcam in flumine Acri capacem equorum decem cum qua et in qua transveri possint».
Durante il XIV secolo, come hanno scritto i ricercatori francesi, il monastero doveva essere «une institution grecque ancore puissante», ma una comunità ridotta numericamente quasi all’estremo: nella visita di Atanasio Chalkèopoulos (1457-1458) i monaci erano sette.
La decadenza dei monasteri greci, già in epoca angioina, sì caratterizzò per la mancanza dei vitali rapporti con l’Oriente e con essi lo scambio di monaci e di manoscritti. Questo è quanto accadde anche a Carbone: fu Drogone di Beaumont, legato a Carlo D’Angiò, «ad evitare le conseguenze più nefaste di un periodo tanto turbolento».
Nel 1432 si verificò un incendio, documentato dalle fonti, in cui «fu arsu Monti Claru»; ad essere colpito risulta essere stato l’abitato e non, come vuole la tradizione orale, il cenobio.
L’ultimo grande abate fu Romano che, per difendere i beni e gli interessi del monastero, entrò in lotta con il principe Girolamo Sanseverino e, perciò, fu processato come “simoniaco” e usurpatore. Così lo ricordava il Menniti: «carcerato e rinserrato in un carcere di Senise, muorendo quasi di fame, carico di ogni sorte di ingiurie». Questo episodio evidenzia anche l’isolamento del monastero dalle autorità civili che lo avevano anticamente sostenuto.
Nel 1474 il monastero venne affidato in commenda, ossia assegnato ad un prelato che prendeva il posto dell’igumeno-abate: Paolo di San Sostio fu il primo tra i commendatari che passarono sulla scena della gloriosa abbazia. Risulta evidente il paradosso tra la decadenza della struttura monastica del borgo con l’importanza dei commendatari, rampolli di gloriose famiglie arricchitisi con le rendite monastiche.
La ripresa decisiva avvenne nel 1560 con Giulio Antonio Santoro (1532-1602), prefetto della Congregazione di Propaganda Fide e membro della Congregazione per la Riforma dei Greci in Italia, dei monaci e dei monasteri dell’“ordine” di San Basilio, voluta da Gregorio XIII nel 1573. Il Menniti lo ricordava come grande amante del monastero, tanto che nel 1582 ordinò di tradurre i privilegi e i testi dell’archivio dal greco al latino, «donò al monastero la Platea dell’entrate di Carbone», e soprattutto, «accrebbe in detto monastero il numero dei monaci». L’opera di riparazione spirituale, morale e materiale non fu gradita ai monaci, come sembra confermare da una nota: «nel mese di dicembre, il 15, pigliao lo possessu lu cardinali di Santa Severina et li monaci ebbiro gran trabaglio».
Nel 1592 la commenda passò al nipote Paolo Emilio Santoro, arcivescovo di Cosenza nel 1617 e poi di Urbino nel 1623.
Nel 1630 successe il cardinale Giovanni Battista Pamphilj, eletto, poi, pontefice nel 1644 con il nome di Innocenzo X. In tale periodo gran parte dei manoscritti e delle pergamene dell’archivio monastico furono trasferiti a Roma per impreziosire la biblioteca familiare, ma allo stesso tempo salvandoli dalle lotte sociali che animarono Carbone nel 1647-1648, in concomitanza con le rivolte avviate dal “capopopolo” Masaniello a Napoli, i cui echi giunsero anche nelle aree più periferiche del Regno come quella sud-occidentale della provincia basilicatese.
Con la commenda del Rapaccioli, difatti, gli abitanti di Carbone «naturalmente avversi ai monaci e commendatari ed a chiunque avesse ed osasse contro di loro signoria e prepotenza, ebbero luogo a sfogare il loro rancore. Essi assalirono il monastero e lo saccheggiarono», uccidendo per decapitazione un frate di origine spagnola.
Dopo il lauriota minore conventuale Brancati, cardinale, tra il 1683 ed il 1693, la commenda di Carbone venne ceduta a Giacomo Boncompagni. Costui, divenuto nel 1696 arcivescovo di Bologna, affidò gli affari del monastero alla sorella Maria Girolama, suora nel monastero di San Giuseppe De’ Ruffi a Napoli, «aiutata da personaggi di dubbia moralità», come ricordava lo Spena.
Nel 1783 l’amministrazione passò al regio fisco e Ferdinando IV restituì al monastero, abolendo la commenda, l’antica organizzazione.
L’atto di soppressione è del 1809, con una comunità ridotta a soli tre monaci; molti arredi, reliquie e quadri, come le tele del cavalier D’Arpino, passarono alla chiesa parrocchiale di Carbone e al vescovo di Policastro, mentre le strutture furono cedute all’amministrazione comunale, come si evince dal decreto di soppressione di Gioacchino Murat del 1814.