PALAZZI STORICI E MURALES

Palazzo Marchesale

E’ un vasto edificio nel centro storico e di fianco alla chiesa madre. I passaggi di proprietà e i cambi di destinazioni d’uso, subentrati alla caduta della feudalità, e i mutamenti storici avvenuti nel tempo, ne fanno oggi un agglomerato di diverse abitazioni, che lo rendono poco riconoscibile. La struttura originaria risaliva sicuramente al periodo dei Sanseverino, nel Quattrocento, quando doveva essere un fortilizio munito anche di torri. Fu trasformato e ingrandito, ma senza distruggere le strutture precedenti, dopo l’avvento dei feudatari Pescara Di Diano e la scelta di questi ultimi di vivere nel paese, a iniziare dalla fine del Cinquecento/inizi del Seicento.

Il suo aspetto cambiò, quindi, passando da palazzo fortificato a palazzo feudale signorile, simboleggiando l’ immagine stessa del potere. Il vasto quadrilatero si sviluppa intorno ad una grande corte, in cui vi era una sontuosa gradinata formata da due scale, di stile tipicamente catalano, ove si affacciavano ariosi loggiati sovrapposti e fronteggianti. Uno di essi era un loggiato a serliane, con finestroni ad arco alternati a piccole finestre rettangolari, che davano un’illusione di continuità. La facciata in cui sporge questo particolare loggiato era magnificante decorata, e oggi, nonostante le manomissioni, ne rimane qualche traccia. I Marchesi di Castelluccio, dalla metà del Seicento, provvidero all’abbellimento e alla decorazione interna. Si susseguivano grandi sale e saloni (“…Ampie le sale, belle le stanze”…), unite da un filo conduttore rigoroso, oggi perduto. La più celebrata era la sala di S.Onofrio, così descritta da Gaetano Arcieri: ”Rimarchevole per ampiezza, per ornati, e dipinti storici tratti da Tito Livio sulle magnifiche gesta dei Romani era la così detta sala di S.Onofrio, poiché ad essa adiacente era la cappella a questo santo dedicata…”. E’ rimasto, della struttura originaria, l’androne dell’ingresso, con la volta affrescata ad illustrare le insegne dei fondatori del ramo Pescara Di Diano Marchesi di Castelluccio, con l’antico portone, il portale in pietra del Cinquecento e lo stemma sovrastante.

Le sale e i grandi saloni, erano tutte splendidamente decorate, specie quelle del primo piano, il piano nobile, a cui si accendeva dal vestibolo costituito dal loggiato della grande scalinata d’ingresso. Era rinomata la galleria degli stemmi, grande opera celebrativa della casata, posta nel loggiato a serliane, al secondo piano. Sono sopravvissute alle spoliazioni e alle trasformazioni, dovute ai cambiamenti d’uso, che sono seguiti in un lungo lasso di tempo, alcune sale che danno un’idea della magnificenza del palazzo, unitamente alla cultura e allo stato sociale dei committenti. Sono gli ambienti di un appartamento al primo piano dell’ala Est e dell’ala Sud, affacciati sul giardino e su largo San Nicola, comunicanti tra loro in un percorso unitario, ormai indissolubile. Tra questi, un salone che nel periodo feudale era detto “la galleria”, sicuramente per la sua funzione celebrativa e di rappresentanza. Presenta una scenografica volta decorata con stucchi, sicuramente realizzati in occasione del matrimonio del Marchese Michelangelo con Maria Sersale, celebrato a Molfetta nel 1686. L’ apparato decorativo, imponente e fastoso, nasce da una committenza importante e di grande prestigio, il cui artista decoratore proviene sicuramente da Napoli e da una cultura barocca di élite. L’attuazione di tale progetto è quasi contemporanea alla decorazione del coro di San Nicola, con cui vi sono molte affinità, e dove sono effigiati i due nobili coniugi. La volta a padiglione della grande sala, mostra una “decorazione-scultura”, in una mescolanza di sacro e profano, in cui risaltano quattro coppie alate, figure mitologiche di satiri e ninfe predisposte alla maniera di telamoni e cariatidi, come a sorreggere il soffitto, che con elementi fitomorfi e fauneschi, si intrecciano tra loro con un viluppo fogliaceo. Il tutto è coronato da altrettanti putti alati a grandezza naturale, da cherubini e da un tripudio di volute di foglie d’ acanto, ghirlande di rami di alloro, di fiori e di frutti, anche esotici, da poco importati con la scoperta del Nuovo Mondo. Due grandi cornici rettangolari al centro della volta e altre cornici nei quattro spicchi laterali, illustrano affreschi, ancora leggibili. I soggetti sono storie dell’Antico Testamento, una specie di genealogia, probabilmente allusiva alla funzione della sala. Si inizia con: “L’incontro di Abramo con i tre Angeli”, seguono “Il sacrificio di Isacco” – “L’incontro di Giacobbe con Rachele” – “La teomachia” – “La visione di Giacobbe” – “L’incendio di Sodoma e la fuga di Lot”. I piccoli dipinti ovali posti uno difronte all’altro, in cornici di ghirlande baccellate, illustrano:

-un’aquila con ali spiegate, sopra una roccia e un cartiglio con la scritta “UNUS ET UNA”

-i simboli della Massoneria, o comunque della Scienza e della Matematica, ed un cartiglio con il motto “EST MODUS IN REBUS” (C’è una misura nelle cose), tratto dalle Satire di Orazio

-un altare con offerte votive, ma la scritta sul cartiglio è ormai illeggibile

-una corona e una spada in primo piano, sullo sfondo di un paesaggio lacustre, due cartigli presentano uno un motto illeggibile, ma si intuisce “ULTRA”, l’ altro si legge “CITRA”.

Ciascuno può dare una sua libera interpretazione, ma la grande sala è piena di messaggi enigmatici, quasi una seconda Cappella Sansevero.

I dipinti non riportano alcuna firma, ma accostamenti stilistici fanno pensare ad Angelo Galtieri da Mormanno, l’ autore del ciclo di affreschi della navata centrale della vicinissima Chiesa di San Nicola, oltre ai soggetti dell’ordine superiore del ciclo pittorico. Il pittore si era formato a Napoli, anche se in brevi soggiorni, ed è considerato un seguace di Luca Giordano (Napoli 1634/1705). L’affresco illustrante L’incontro di Giacobbe e Rachele e’, effettivamente, la copia di una tela di questo grande pittore napoletano. Cambia solo un po’ lo sfondo, perché i due grandi dipinti centrali della sala sono stati ritoccati in epoca non recente in seguito a delle infiltrazioni d’acqua. Nella scena dell’incendio di Sodoma e la fuga di Lot, vediamo in primo piano il protagonista affiancato dalle due figlie, nel momento drammatico della fuga verso la salvezza, e guardano smarriti verso lo spettatore. Sullo sfondo nebuloso, vediamo la città, fortificata, di Sodoma che brucia e Or, moglie di Lot, che per aver disobbedito all’ordine di non voltarsi, viene trasformata in una statua di sale. I bellissimi paesaggi degli affreschi, con alberi frondosi, fiumi e paesi arroccati, che fanno da scena ai fatti biblici descritti, hanno molte affinità con quelli del pittore napoletano Micco Spadaro (al secolo Domenico Gargiulo – Napoli 1609/1675), anche questo probabile modello di Angelo Galtieri. A questo punto, e per svariati motivi, l’epoca degli affreschi potrebbe essere all’incirca il primo trentennio del Settecento: la realizzazione di questi lavori così imponenti, richiedeva verosimilmente un lungo arco di tempo. Di conseguenza, la committenza degli affreschi spetterebbe al Marchese Carlo Francesco, figlio di Michelangelo. A questa sala ne segue un’altra più piccola, ov’e’ un grande arco sormontato dallo stemma coronato dei due sposi, i già nominati Michelangelo Pescara e Maria Sersale. Sulla volta, divisa in quattro scomparti, si ripetono, anche se in maniera diversa, i motivi decorativi della Galleria. Quattro cherubini inquadrano il rosone centrale e nello stesso tempo, insieme ad altrettanti putti alati, presentano quattro grandi dipinti bilobati.

In questo ambiente l’artista-decoratore, si è ispirato alla Sacrestia della Cappella del Tesoro, nel Duomo di Napoli, in particolare all’oratorio dov’e’ l’affresco raffigurante l’Immacolata, di Luca Giordano. Gli affreschi di questa sala, ove si trova anche il camino in marmo di alabastro cotogno, della Difesa (località di Castelluccio Inferiore), eseguito forse dal marmoraro napoletano Arcangelo Staffetta, intorno al 1760, sono ormai quasi illeggibili, per i danni del tempo. Anche questi illustrano scene tratte dall’Antico Testamento, in particolare il Libro della Genesi:

-La creazione del mondo-

-La creazione dell’uomo-

-Il peccato originale-

-La cacciata dal Paradiso Terrestre.

Segue questo percorso, un’altra sala più piccola, che presenta anche questa uno sfarzoso impianto ornamentale anche alle pareti, eseguito in fasi diverse; sulla volta a padiglione erano altri affreschi.

Il salone detto di Sant’Onofrio, anticamente comunicante con la Galleria, era un vasto ambiente rettangolare a doppia altezza, posto nell’ ala Est, orientato verso il giardino e la gran corte, con soffitto in travi di legno. Lungo la fascia perimetrale sottostante il soffitto, separati da decorazioni e cornici dipinte, dovevano esserci gli affreschi illustranti le gesta degli antichi romani, tratti dalle storie di Tito Livio, soggetti consueti nei palazzi nobiliari di un certo grado.

Il salone prendeva il nome dal fatto che al suo interno vi fosse la cappella di Sant’Onofrio, corrispondente anche con la galleria.

La cappella di Sant’Onofrio fu costruita, per volontà dei Marchesi Carlo Francesco e Barbara Pascale, nel 1734, dietro assenso del Vescovo di Cassano, e fu unita al palazzo utilizzando una parte del giardino. Era un luogo sacro strettamente privato, dove avvenivano anche i battesimi, al contrario dell’altra, più antica e dedicata a San Domenico di Guzman.

Sant’Onofrio era di stirpe reale, il suo culto è stato introdotto nella Valle del Mercure dai Monaci Basiliani, forse la scelta di questa intitolazione non è casuale.

Un’altra stanza del palazzo che si è salvata dai dannosi cambiamenti avvenuti nel tempo, è al secondo piano dell’ala Ovest, e rivolta verso il Convento dei Padri Minori Osservanti. Presenta alle pareti dieci dipinti, di autore ignoto, sicuramente del Settecento, i cui soggetti si riferiscono alla vita di San Giovanni Battista, parabole del Vangelo e altri, tra cui un piccolo riquadro con Sant’Anna e la Vergine.

Il palazzo ha gravemente subito l’occupazione militare francese nel biennio 1806/1807, durante le Campagne Napoleoniche, con il Reggimento Cacciatori di stanza a Campotenese, diretto dal generale Reynier. Come ci tramanda Gaetano Arcieri, vi stanziarono trecento soldati francesi, essi occuparono le scuderie e le soffitte, tra cui quella del gran salone di Sant’Onofrio, come confermano anche i numerosi graffiti che essi lasciarono sui muri.

Non è noto, però, se il palazzo sia stato saccheggiato, né se in quel periodo sia stato pacificamente abitato dalla famiglia del feudatario. Il Marchese Vincenzo Antonio era molto anziano e da poco rimasto vedovo della moglie – Felicita Marulli, le figlie femmine erano sposate due in Casa Amalfitani di Crucoli, e quindi in Calabria, e una sposata con il Duca di Castronuovo.

Di sicuro le spoliazioni sono avvenute dopo l’abolizione della feudalità, attraverso la legge eversiva di Giuseppe Bonaparte, del 1806/1808, ed in seguito ai forti debiti del Marchese successivo – Carlo Francesco (3o con questo nome).

PALAZZI GENTILIZI DI CASTELLUCCIO INFERIORE
Altri palazzi gentilizi del paese sono: Aiello (sec. XVIII), De Biase (sec. XIX), Scutari (sec. XIX), Roberti (casa natale del giurista Sante Roberti – sec.XVIII, con bellissimo cortile e loggiati), Roberti di via Roma civico 218 (sec.XIX), Salerno di via Int.Taranto (sec.XVIII), Salerno (casa natale del giurista Giovanni Salerno, sec.XVIII), Taranto (sec. XVIII), Arcieri (sec. XVII), De Robertis (sec.XVIII), Mairota (sec.XIX), Pagani (sec.XIX).

Seguono i palazzetti di via Roma, tra cui Ruggiero, Guarino ecc., e le case palazziate dei cosiddetti “americani”, che formavano un rione nato tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

I portali dei palazzi, scolpiti in pietra e in marmo bianco, gareggiano tra loro per bellezza ed eleganza: conchiglie, vòlute, nastri, fiocchi, nappine, gigli cadenti.

Le sale di palazzo Arcieri erano decorate con soffitti in legno dipinto, del Settecento. Ma oggi ne sopravvive uno solo ed illustra un’allegoria della scienza nelle vesti di Minerva, con ai lati altri simboli delle varie discipline della conoscenza e del sapere, tra cui la giustizia, perchè gli esponenti della famiglia erano prevalentemente magistrati e giuristi.

Una strada caratteristica è via Intendente Taranto, un tempo “via della Cavallerizza”, che con i suoi sopportici attraversa, quasi in linea retta, gran parte del centro più antico. Vi si affacciavano le case più vetuste e tra queste, palazzo Pinto: un arco a sesto acuto (asimmetrico per via dei gradini interni) e sovrastato da una loggia, è un cavalcavia che funge da elemento di collegamento tra una torre scalaria e il resto della casa. E’ una parte del centro storico ancora intatta e per questo molto affascinante.

Testi – Giuseppe Pitillo

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